Il ruolo del padre
Parlare del padre, oggi, non è facile, non tanto quanto lo poteva essere (a esempio) nella prima metà secolo scorso. Fino alla seconda guerra mondiale e al successivo boom economico, infatti, il ruolo del padre non era mai stato messo radicalmente in discussione, in Italia.
Poi, le cose cambiarono: l’Italia, come molti altri paesi europei, uscì dalla guerra con una popolazione maschile decimata, e nell’enorme povertà che caratterizzò gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, la vita era enormemente difficile, e difficile diventava, per i padri di allora, svolgere il loro ruolo di sostentamento economico e sociale per i loro figli e per la famiglia in generale.
Fu Vittorio De Sica, con alcuni film rimasti nella storia del cinema come dei capolavori, a ritrarre con notevole acume la situazione delle figure maschili di riferimento dell’epoca, in particolare con tre film, Sciuscià, Ladri di biciclette, eUmberto D., una vera e propria trilogia del paterno nelle tre età della vita.
Sciuscià (il titolo è una storpiatura della parola inglese shoeshine, lucidascarpe) parla di due bambini, uniti nella povertà, che tentano di fare qualche soldo lucidando le scarpe dei soldati americani, per potersi comprare e dar da mangiare a un cavallo custodito in una scuderia di borgata. Finiranno però in riformatorio, accusati ingiustamente di furto, e la loro storia avrà un epilogo tragico. Il tema che solleva questo film è l’infanzia, un’infanzia abbandonata dal padre (De Sica ne aveva già parlato durante la guerra, in I bambini ci guardano,in cui un padre si suicida in seguito all’adulterio della moglie). Una metafora potente per l’Italia del dopoguerra, che (anche a livello sociale) aveva perso ogni punto di riferimento.
Il film successivo, Ladri di biciclette, parla invece del rapporto fra padre e figlio nella durissima lotta per l’esistenza. La storia è nota: un padre trova lavoro come imbianchino, lavoro nel quale si fa accompagnare dal figlio piccolo. Per fare questo lavoro ha bisogno di una bicicletta, che riesce a procurarsi ma che purtroppo gli viene rubata il primo giorno di lavoro. Dopo aver tentato a lungo di recuperarla, girando in lungo e in largo per Roma, il padre decide infine di rubare a sua volta una bicicletta, ma viene circondato dai passanti infuriati e rischia il linciaggio, dal quale verrà salvato solo dal pianto del bambino.
L’ultimo film, Umberto D., parla infine di un pensionato e della sua vita di povertà e di solitudine. Dedicato da De Sica a suo padre Umberto, è uno dei film più commoventi mai girati sulla terza età e sul rapporto che lega un padrone al proprio cane, che potrebbe rappresentare l’ultimo sostituto del figlio. Con questo film, De Sica descrive cosa rimane del padre quando i figli sono andati via, e non gli rimane che vivere, in solitudine, l’età (per certi versi) più difficile dell’esistenza.
Ho voluto citare questi tre film, perché secondo me furono in anticipo su una generale svalutazione del ruolo paterno che, in molti modi, si concretizzerà ulteriormente nel corso degli anni successivi in Italia e nel resto del mondo, tanto da dare origine a un vero e proprio mito, quello del padre assente.
Questo mito è stato, a mio parere, rinforzato molto anche da certe tendenze culturali e psicologiche, che hanno focalizzato molto l’attenzione sulla figura della madre e trascurato di prendere in considerazione il padre.
Se torniamo a considerare l’opera di Freud, ci ricordiamo che il padre è una figura cardine della sua visione della psiche, poiché è colui che porta a conclusione, attraverso la sua sola presenza, il complesso di Edipo dei figli: rimane un cardine della sua biografia il famoso episodio in cui il padre fu sbeffeggiato da un viennese, in quanto ebreo, e della sua mancata reazione.
Ma i successori di Freud spesso non furono così propensi ad occuparsi del padre, quanto, appunto, della madre. Melanie Klein, per prima, basò tutta la sua metapsicologia sull’elaborazione del rapporto fra il bambino e il seno materno. In tempi più moderni, Bowlby ha studiato l’attaccamento fra bambino e madre ai fini della comprensione delle patologie psichiche, e Winnicott ha ribadito l’importanza della funzione materna parlando della madre sufficientemente buona come fondamentale nella crescita dell’uomo.
Il padre, insomma, è stato spesso escluso dalla discussione sul benessere psicologico dei figli, quasi che il suo apporto fosse fondamentale solo al momento del concepimento.
Tuttavia, l’importanza della figura paterna continua a essere rintracciabile, ad esempio, nella letteratura. Penso soprattutto alla famosissima Lettera al padre di Franz Kafka, un documento di intensità straordinaria sul rapporto padre-figlio.
Lettera al padre è una lunga confessione fatta da Kafka a suo padre, non un mero esercizio letterario. In questa lettera, che non è mai stata spedita ma è stata pubblicata dopo la morte dell’autore, Kafka rintraccia minuziosamente tutti i segni dell’immenso senso di colpa che l’ha perseguitato per tutta la sua esistenza, un senso di colpa che è stato da lui interiorizzato a partire dalle innumerevoli umiliazioni e svalutazioni che ha subito dal padre, fin dall’età più tenera.
La sensibilità molto particolare e raffinata di Kafka, rimase impressionata a vita dalla figura del padre, e ha costituito una componente importantissima della sua poetica: un altro esempio ne è Il processo, romanzo nel quale il protagonista viene perseguitato per un delitto che non riesce a ricordare, e del quale i suoi stessi accusatori non gli rivelano niente, fino all’esecuzione capitale.
Il senso di colpa, dunque, appare molto spesso legato alla figura di un padre svalutante, che non ha fornito ai figli la percezione del mondo come un posto da esplorare e conquistare, piuttosto che di un luogo minaccioso dove gli sforzi sono vani.
Perché, dunque, se il padre è una figura così importante, nel bene e nel male, oggi appare in declino? Nel suo famoso libro Il gesto di Ettore, Luigi Zoja tenta di dare una risposta, partendo dalla considerazione che, mentre la maternità è data biologicamente, e il rapporto madre-figlio negli esseri umani non deve essere costruito, ma deriva alla nostra specie in quanto discendente dagli altri animali e in particolare dai mammiferi, il padre è una vera e propria creazione culturale.
Se ci pensiamo, in effetti per il padre il collegamento fra l’atto della procreazione e il figlio non è biologicamente fondato, perché il padre non cresce il feto, non partorisce, non allatta il neonato, e via di seguito. Quindi, mentre il legame fra madre e figlio è fondamentale per la sopravvivenza del neonato, il legame fra padre e figlio non lo è e deve essere costruito, in un certo senso, artificialmente. Per questo è un legame più fragile, la cui costruzione può essere facilmente trascurata se la società intorno non provvede adeguati rituali di iniziazione al ruolo del padre, come avveniva nei secoli passati.
Le statistiche sono abbastanza note ed esplicative: in caso di separazione o divorzio, quasi sempre i figli vengono assegnati alle madri dai giudici, con pochissimo spazio per i padri, che spesso possono vedere i figli una sera a settimana, o un weekend al mese, a seconda. Nelle separazioni familiari, quindi, il ruolo del padre è spesso il primo o il solo ad essere sacrificato, il che è dovuto, lo sottolineiamo di nuovo, alla sua fragilità.
In Italia, in particolare, la situazione è ancora più aggravata dalla presenza pervadente della figura della Grande Madre (in particolare della Grande Madre mediterranea), che poi assume, a seconda dei luoghi, tante configurazioni diverse. Lo Stato, che deve provvedere a tutti i bisogni dei propri cittadini, è una Grande Madre. La Chiesa, che accoglie tutti i peccatori e li redime, può esserne un’altra. E, per quanto riguarda prevalentemente, ma ovviamente non solo, il Sud, la mafia, con le sue leggi non scritte al di fuori della legalità dettata dal principio paterno, è anch’essa una Grande Madre.
Il Padre ci richiama alla responsabilità, la responsabilità di sostenere la crescita della generazione successiva, di preparare il futuro della nostra specie, emendandola dal passato. Per questo, ritengo, in questo momento storico è cruciale, specialmente in Italia (ma non solo) che ci sia una riflessione di tutti sul prezzo che tutti quanti paghiamo per la latitanza dei padri, sia essa voluta, sia essa indotta dal mondo nel quale viviamo, un mondo nel quale, ricordiamolo, viene premiata unicamente l’efficienza produttiva, e non la capacità, propria dei padri, di trasmettere anzitutto dei valori alle generazioni più giovani.
Vorrei chiudere quest’intervento ricordando un ultimo film di uno sfortunato attore e regista italiano, Francesco Nuti. Il film, che molti di voi conosceranno, èTutta colpa del Paradiso, ed è la storia di un uomo, un padre, che esce dal carcere e scopre che suo figlio è stato adottato da una famiglia di un’altra città, del nord Italia. Parte quindi alla ricerca di suo figlio, riesce a trovarlo e a vivere, almeno in parte, il suo ruolo di padre stabilendo una complicità con lui, salvo poi tornare alla sua vita e lasciarlo alla famiglia che lo ha adottato, senza rivelare mai la sua vera identità al bambino.
Credo che questo film sia una testimonianza importante, a livello artistico, di quello che significa per un uomo conquistarsi il ruolo di padre dei propri figli. Come Ulisse, torna a Itaca e riabbraccia Telemaco, dopo vent’anni di esilio, così Romeo, nel film di Nuti, abbraccia suo figlio Lorenzo dopo essere stato punito per i suoi reati. Possiamo solo augurarci che, anche a livello collettivo, Ulisse torni presto a casa, e che sia un padre buono, ragionevole e amorevole, che possa trasmettere ai propri figli i valori dei quali, spesso, sentiamo la mancanza: onestà, dignità, ricerca del senso dell’esistenza.
di Luca Sarcinelli
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