Diventare genitori è un (bel) vantaggio!
04.09.2015 15:01
Essere genitori è un vantaggio? L’idea oggi prevalente è di segno opposto. Essere genitori, infatti, si configura come difficoltà, problema, fatica, peso, e questo medesimo pensiero è sotteso alle proposte formative che vengono rivolte ai genitori. Tale prospettiva si accentua ulteriormente se l'esperienza di figlio e di genitore è quella che sorge dall'atto adottivo e si fa ancora più ardua se ci riferiamo all'adozione internazionale con la relativa complessità multiculturale.
Il vantaggio di essere genitori non è uno slogan coniato ad hoc, con l’intento di distinguersi e fare clamore intorno alla proposta. Il vantaggio di essere genitori è concreto, reale, ed è il vantaggio che deriva dall’essere in rapporto con un figlio.Figlio, colui che ri-eccita nell’adulto la posizione del ricevente; colui che, se ascoltato e osservato al di fuori di griglie o schemi, è suscettibile di interrogare rispetto alla propria vita adulta, apportando al soggetto un beneficio reale in termini di utilità e convenienza. La pratica psicoanalitica conduce alla continua riscoperta del “ponte” che collega l’esperienza dell’adulto e del bambino nell’esperienza di figlio. Una sorta di minimo comun denominatore dell'esperienza che l'aforisma di Contri "essere uomini è essere figli" rende in modo semplice e efficace.
L’invito è a riappropriarsi della competenza che è propria di ciascun genitore, non in quanto esperto di pedagogia o di psicologia, di medicina o di giurisprudenza; tanto meno come esperto di adozione e di adozione internazionale, ma in quanto titolare della propria personale esperienza di figlio e titolare della capacità di elaborarla in chiave universale: nell’universo di tutti i rapporti. È proprio questa, che possiamo chiamare prima titolarità a farci titolari in primis del rapporto con noi stessi e con il figlio e competenti nell'avvalerci, con il necessario senso critico, dell'ausilio dei molti esperti in materia. L'invito non è comune nel panorama odierno; segnato piuttosto dal prevalere dell’atteggiamento di “delega all’esperto”, con la ricerca di soluzioni pronte all’uso e, dalla parte dell'esperto, l’offerta di pacchetti preconfezionati che richiedono spesso la messa in "sordina" della propria esperienza, a favore di un atteggiamento di passiva accondiscendenza.
In questa prospettiva l’accento del discorso sul rapporto genitore-figlio non cade sul consiglio da chiedere all’esperto secondo lo schema consueto: l’esperto risponde, quanto piuttosto si focalizza sulla possibilità di ri-abilitare, di ri-attivare o di ri-eccitare quella speciale competenza sull’esperienza del figlio che a ciascuno appartiene. La competenza sul bambino è infatti parte integrante della competenza individuale di un adulto sufficientemente sano sotto il profilo psichico. A patto che questi non determini con sistematicità una spaccatura - tecnicamente la si chiamerebbe una scissione - tra la propria esperienza attuale e quella che è stata la propria esperienza di figlio. A questo proposito rammento una giovane donna, che mi disse di raccontare al figlio la fiaba di “Giovannin senza paura” che suo padre era solito raccontarle quand’ella era bambina, evidenziando con un semplice ricordo il punto di contatto della sua esperienza di genitore e della sua esperienza di figlia. Grazie al racconto di quella fiaba qualcosa passava“di mano in mano”, ma non, come sì usa dire: “di padre in figlio”, quanto piuttosto e più precisamente “di figlio in figlio”. Anche la storia di questa madre ha infatti avuto inizio dal posto di figlio, ed anche il padre di lei ha iniziato dal medesimo posto.
Detto con altre parole anche la storia dei genitori è sempre storia di figli. Il ricordo di cosa faceva piacere allora, nella propria infanzia, è inequivocabilmente personale e ciò consente di affermare che ciascuno sa cosa può far piacere a un bambino potendo attingere questo sapere dalla sua stessa esperienza. Ora rileva notare che non ho precisato a che titolo quel figlio fosse figlio di sua madre, se a seguito di un atto adottivo oppure no.
Estratto dell'articolo di Luigi Campagner per la rivista MINORIGIUSTIZIA (numero 3-2014) diretta dal dr. Piercarlo Panzè