Attacchi di panico
Cos’è un attacco di panico?
E’ uno dei disturbi che riscontro con più frequenza nel mio lavoro ed è sicuramente uno tra i più invalidanti. A livello mondiale questo problema riguarda una persona su 75 e il periodo di vita in cui compare è quello che va dall’adolescenza ai 30 anni. Le donne ne sono colpite da 2 a 3 volte di più rispetto agli uomini (anche se in realtà questo dato potrebbe derivare dal fatto che gli uomini sono meno inclini delle donne a rivolgersi a specialisti per cercare una cura). E’ un disturbo d'ansia in cui l'emozione dominante è la paura in assenza di un pericolo reale, cioè di fattori scatenanti apparenti. La paura, che è appunto l’elemento centrale, deriva dal fatto che il corpo si comporta come se effettivamente fosse in presenza di un pericolo reale, quindi attiva delle risposte che simulano svariate malattie organiche e che portano il soggetto a credere di essere, ad esempio, in procinto di avere un infarto, un ictus o un disturbo respiratorio. Non è un caso che chi soffre di attacco di panico si rivolga inizialmente ad un cardiologo, credendo che il problema sia di natura organica. Questo perché l’attacco di panico si manifesta primariamente attraverso sintomi corporei, a partire dai quali il soggetto costruisce un’interpretazione catastrofica considerandoli come un segno di un imminente disastro.
Come si manifesta, cosa prova chi ne è colpito?
E’ un disturbo che coinvolge corpo e mente. La componente somatica e quella psicologica sono simili a quelle riscontrate nell’ansia, però qui si manifestano in modo molto più intenso e concentrato in un breve arco di tempo che solitamente non supera i 20 minuti. I sintomi sono un aumento del battito cardiaco, della tensione muscolare e del ritmo respiratorio con conseguente senso di soffocamento e vertigini, sudorazione e tremore delle estremità corporee, vampate di calore o brividi di freddo, derealizzazione e depersonalizzazione. Il soggetto sperimenta una angoscia intensa, sente di non avere il controllo e ha una sensazione di morte imminente. A questi sintomi seguono un’ansia post attacco che resta per diverse ore e un sentimento di vergogna per la paura che il disagio possa essere percepito dalle persone presenti. Spesso si sviluppa anche l’agorafobia, cioè la paura di essere intrappolati in un luogo percepito come pericoloso o da cui è difficile fuggire o in cui è difficile ricevere soccorsi. E l’imprevedibilità nella comparsa dei sintomi e la difficoltà di rintracciare fattori scatenanti portano il soggetto che ne è colpito a sviluppare un’ansia anticipatoria che spesso è più invalidante dell’attacco di panico stesso perché più pervasiva. Questa ansia anticipatoria provoca quella che viene chiamata fobofobia (paura di aver paura, cioè paura della propria reazione al pericolo e non tanto al pericolo il se, che tra l’altro non è mai definito in questi casi). Questa è il vero zoccolo duro da superare perché mette il soggetto in uno stato di allerta quasi perenne e suscita un senso di impotenza e terrore.
Quali sono le conseguenze nella vita di tutti i giorni?
Come è intuibile, questa condizione porta ad una grave limitazione nella vita quotidiana, nelle relazioni, nella possibilità di autorealizzazione, nel fare esperienza di momenti goduti e di apertura al nuovo. Questo perché la vita del soggetto ruota attorno alla paura del sintomo e alla necessità di evitare situazioni di panico future, portandolo ad escludere qualsiasi luogo o situazione che potrebbero esporlo al pericolo, fino a casi di vera e propria autoreclusione dentro le mura domestiche, che diventano l’unico luogo percepito come sicuro. In questi casi più gravi l’appiattimento emotivo e cognitivo è una conseguenza del fatto che ci si trova a pensare solo a come sopravvivere alla paura. E quando la priorità è sopravvivere di fronte ad un pericolo che potrebbe manifestarsi in qualsiasi momento non c'è spazio per pensare ad altri aspetti che renderebbero la vita più soddisfacente e piena.
Quali sono le strategie che solitamente chi ne soffre mette in atto?
In genere l’atteggiamento dei soggetti verso il proprio mondo interno (emozioni, affetti, sensazioni corporee) e il mondo esterno, entrambi vissuti come minacciosi, è un atteggiamento ipercontrollante. Il compromesso che le persone trovano per poter affrontare la quotidianità ed uscire da un evitamento che le bloccherebbe o limiterebbe è quello di eleggere alcune persone con cui c'è un legame di attaccamento forte come figure protettive. Queste persone, chiamate “partner fobici” assumono aspetti quasi magici, totemici, sono l'incarnazione di quella stabilità che il soggetto non riesce ad avere autonomamente. Spesso a queste figure viene chiesto di accompagnare e rassicurare, di fungere da vero e proprio sostegno, che però essendo un sostegno esterno, funziona solo nel momento in cui è presente. In questo tipo di relazioni il soggetto viene rassicurato ma non cresce né matura una sua capacità di autosostenersi, non interiorizza niente. Lo stesso vale per tutti quei rituali che il soggetto mette in atto sia per ridurre l’ansia che lo pervade sia con la speranza magica di poter eliminare il pericolo dell’insorgere di un attacco.
Perché questo disturbo è uno dei mali della nostra contemporaneità?
L’individuo di oggi è sempre più solo ed esposto ad aspettative sociali che una volta erano molto diverse (basta osservare i modelli maschili e femminili che vengono presentati come prototipi vincenti e quindi da raggiungere). Oggi la società impone di stare al passo con dei tempi che sono sempre più veloci, viene dato sempre meno valore al mondo interno, al dialogo con le emozioni, a spazi e occasioni in cui queste possano essere condivise. Viene richiesta al contempo una capacità prestazionale che rende il vivere le sfide della vita molto più difficile, non ci sono punti di riferimento stabili come in passato (e mi riferisco alla stabilità che potevano dare il lavoro o le relazioni), c’è maggior competitività tra i singoli ed un senso di precarietà verso il futuro. Da questo punto di vista siamo tutti più esposti, ma i soggetti più fragili rischiano di essere sottoposti ad uno stress notevole, che nei casi più gravi e di maggior fragilità può portare a depressione, ritiro sociale, ritiro dall’investimento sul futuro. La stessa paura di derealizzazione, intesa come difficoltà a realizzarsi nel contesto di una vita soddisfacente, è una delle condizioni di base nell’insorgere degli attacchi di panico. Alla base di tutti gli stati di ansia c’è la paura del nuovo e di ciò che è sconosciuto (misoneismo) e un timore verso il cambiamento. Questi aspetti legati al cambiamento del quadro sociale lo rendono uno dei maggiori disturbi della contemporaneità.
Quali soluzioni esistono a questo problema?
Esistono diversi approcci a questo tipo di disturbo, da quelli orientati specificatamente alla remissione del sintomo a interventi che invece vanno a lavorare sulla personalità di chi ne è affetto, con un lavoro sicuramente più complesso. In linea di massima, insegnare strategie o dare rassicurazioni non sempre è efficace, perché lo stile cognitivo del soggetto è orientato a sviluppare pensieri catastrofici dove la paura è la condizione dominante e l'evitamento la conseguenza comportamentale. Le terapie orientate sulla riduzione del sintomo, ad esempio quella farmacologica, sono approcci che mirano a rimettere il soggetto in sesto il prima possibile, a renderlo di nuovo produttivo e funzionante e fin qui non ci sarebbe nulla di male. Il problema è che per poterlo fare escludono il mentale, la cui complessità viene considerata un ostacolo più che una risorsa. Questa è una conseguenza del pensiero tutto e subito, ma se trattiamo disturbi di una certa gravità questo paradigma si rivela poco sostenibile. Nel mio lavoro prendo in considerazione la personalità dell’individuo nella sua globalità, con particolare attenzione al tipo di rapporto che il soggetto ha con i vissuti e gli affetti e il grado di consapevolezza emotiva che ha raggiunto. Mi interessa non solo cosa la persona ha in termini di disturbo, ma anche cosa la persona è, perché per quanto il sintomo si manifesti in modo improvviso e apparentemente dal nulla, in realtà c’è un terreno in cui il sintomo è nato, si è sviluppato e solo alla fine si è manifestato. Il fatto che l'attacco di panico costringa il soggetto a fermarsi, è segno che c'è qualcosa di cui il soggetto dovrebbe prendere coscienza. Questo arresto forzato rispetto alla vita che il soggetto conduce dovrebbe essere letto come un invito a riconsiderare alcuni aspetti che evidentemente hanno portato il soggetto a star male, un invito a cambiare direzione perché quella presa non è più sostenibile. Tutte queste cose andrebbero pensate e per farlo è necessario avere uno spazio per poterle pensare e questo è possibile solo con un lavoro terapeutico. Jung sosteneva che la nevrosi è una sofferenza che non ha trovato un suo significato, cioè un senso del suo esistere nel contesto di vita del soggetto. Quindi una sofferenza che è rimasta scissa e non integrata. La terapia aiuta a ricostruire questo senso, promuovendo nel soggetto un rapporto più complesso con i propri vissuti, che è la chiave di accesso al sintomo e alla vita stessa.
Qui potete ascoltare la mia intervista a Radio Roma capitale sul Disturbo da attacchi di panico: